Il sesto appuntamento con i seminari dell’Anpi si è svolto venerdì 9 marzo alle 17,30 presso la sala Di Vittorio della Cgil di Benevento. I relatori, Corrado Tesauro e Lorenzo Covino, hanno presentato ai partecipanti un interessante intervento dal titolo Su alcuni temi della letteratura resistenziale offrendo interessanti parallelismi storico-letterari in particolar modo tra l’epica greca e la produzione letteraria scaturita dalla lotta di Resistenza.
«Era, il dopoguerra, un tempo in cui tutti pensavano d’essere dei poeti, e tutti pensavano d’essere dei politici; tutti s’immaginavano che si potesse e si dovesse anzi far poesia di tutto, dopo tanti anni in cui era sembrato che il mondo fosse ammutolito e pietrificato e la realtà era stata guardata come di là da un vetro, in una vitrea, cristallina e muta immobilità. […] Nel tempo del fascismo, i poeti s’erano trovati ad esprimere solo il mondo arido, chiuso e sibillino dei sogni. Ora c’erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; perciò quegli antichi digiunatori si diedero a vendemmiarvi con delizia. E la vendemmia fu generale, perché tutti ebbero l’idea di prendervi parte; e si determinò una confusione di linguaggio fra poesia e politica, le quali erano apparse mescolate insieme».
Da queste parole della scrittrice italiana Natalia Ginzburg è partito Corrado Tesauro per evidenziare quella che Calvino definì “l’esplosione letteraria” immediatamente succesiva alla fine della guerra, esplosione che presentava caratteri che andavano ben oltre un intento artistico-letterario, ma che si palesavano come “un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo”.
Fin dal principio prese vita una smania di comunicare, un’esigenza di raccontare la Resistenza non solo da parte degli scrittori, ma ancor prima e soprattutto a livello popolare, nei luoghi dove la vita quotidiana riprendeva a scorrere grazie alla rinata libertà.
A partire da questo aspetto, ha affermato Tesauro, la nuova società repubblicana e democratica sorta dalle ceneri della guerra e della lotta al nazifascismo può fondare se stessa sui testi nati dalla Resistenza considerabili alla stregua di una “enciclopedia tribale”, proprio come il filologo inglese Erik Havelock aveva considerato la poesia epica «che offre abbondanti esempi di tutti gli schemi e le forme di comportamento da osservare, pressoché in ogni situazione sociale, nella comunità». E come per Havelock «la continuità della tradizione culturale viene assicurata attraverso la reiterazione dell’esecuzione pubblica della poesia» così i poeti e gli scrittori possono e devono far emergere l’epicità intrinseca nella letteratura resistenziale nelle cui opere ritroviamo una testimonianza collettiva e di comunità.
In quell’epoca era viva la necessità per scrittori e poeti di dare vita al romanzo della Resistenza, di dare forma a quel mare di esperienze e di storie che vive e vibranti rischiavano col tempo, però, di perdersi e di svanire, ma allo stesso tempo, ha proseguito Tesauro, questa necessità, però, doveva sapersi coniugare con una prassi letteraria che non fosse distaccata dalla realtà e che non mirasse a calare dall’alto i propri valori sul popolo.
Un esempio di questa incapacità a collegarsi con la realtà, ha concluso Corrado Tesauro, è il romanzo Uomini e no di Elio Vittorini nel quale il protagonista è un intellettuale di estrazione borghese alla ricerca di una vita autentica che si unisce ai partigiani, ma resta distaccato da essi perché ha come obiettivo un fine personale, quello di riscattare se stesso e la propria esistenza e, di conseguenza, in tal modo naufraga inevitabilmente l’intento di creare un’opera collettiva.
Come ha scritto Asor Rosa, la Resistenza si presenta come la semplice occasione di un discorso, che ancora una volta trova le sue motivazioni al livello della cultura e della ricerca intellettuale, ma così facendo resta un un romanzo sulla Resistenza e non “il romanzo della Resistenza” ricercato da un’intera leva di scrittori-partigiani.
La parola è poi passata a Lorenzo Covino che si è soffermato in particolar modo sui romanzi di Calvino e Fenoglio, Il sentiero dei nidi di ragno e Il partigiano Johnny.
L’opera di Calvino, oltre che per il valore letterario, ha offerto notevoli spunti soprattutto per l’introduzione scritta dall’autore all’edizione del ’64. In essa lo scrittore e partigiano italiano affermava di voler «combattere contemporaneamente su due fronti, lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata». Calvino ha voluto con forza mostrare la Resistenza come fenomeno umano e per far questo non ha disdegnato di presentare i partigiani peggiori mettendo al centro del suo romanzo «un reparto tutto composto di tipi un po’ storti», ma nonostante ciò, i suoi partigiani evidenziavano, rispetto a benpensati e agiografi della Resistenza, una tensione di fondo, «un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere!».
A questa considerazione, Calvino aggiunse anche un tentativo di motivare quella che possiamo considerare una sorta di epoché, di sospensione della valutazione «sul giudizio morale verso le persone e sul senso storico delle azioni di ciascuno di noi» perché, continua nell’introduzione, «per molti dei miei coetanei, era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti tutt’a un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall’altra sparavano o si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile».
A questo punto, ha proseguito Covino, se – come dice Calvino – solo il caso determinava il campo di battaglia cos’è che poteva salvare i partigiani? In cosa considerarli giusti rispetto ai repubblichini?
Una possibile risposta è ancora nelle parole di Calvino e in particolar modo nello scambio di battute tra Ferreira e Kim, comandanti partigiani, quando il primo chiede «quindi, lo spirito dei nostri… e quello della brigata nera… la stessa cosa?» e l’altro risponde «la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra».
Covino ha poi proseguito con l’analisi de Il partigiano Johnny, uno dei più importanti romanzi della Resistenza e della letteratura italiana, ma per fare ciò è nuovamente ritornato sull’introduzione a Il sentiero dei nidi di ragno e alle parole che Calvino dedicò a Fenoglio che «riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava […] e arrivò a scriverlo e nemmeno finirlo (Una questione privata), e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant’anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata».
Se Una questione privata è, per riprendere le parole di Calvino, “il romanzo che tutti avevamo sognato”, per Covino e Tesauro, invece, Il partigiano Johnny può essere per l’Italia repubblicana quella enciclopedia tribale che per Havelock furono i poemi omerici per i greci perché racconta tutta l’esperienza della Resistenza, in ogni suo aspetto, in ogni sua forma anche attraverso scene di vita quotidiana.
Tre, in particolar modo, sono gli elementi epici nel partigiano Johnny: il valore della lotta, il valore della morte e il valore della testimonianza.
Il primo si mostra nella sua valenza paradigmatica perché la stessa guerra partigiana va aldilà della contingenza storica per mostrare il valore di ogni uomo che sfida e combatte tutto ciò che offende la vita.
Il valore della morte, invece, risiede nel fatto che senza i morti, senza i compagni di Johnny che cadono nulla avrebbe senso ed invece qui la morte trasforma un mero fatto non in storia, bensì in una sorta di griglia simbolica che consente la comprensione dei fatti stessi.
Infine, il valore della testimonianza che prende forza nella morte e dalla morte di chi ha combattuto, dalla narrazione degli orrori e della violenza non solo di quella guerra civile, ma di tutte le guerre, dalla capacità di offrire una riflessione toccata da un sentimento di pietas verso le vittime, di porsi interrogativi ultimi sull’uomo e sul suo destino.
Il prossimo appuntamento dei seminari dell’Anpi promossi dall’Officina di studi storico-politici “Maria Penna” è per venerdì 23 marzo alle 17.30 con Dolores Morra e Mariavittoria Albini che presenteranno due interventi, La Resistenza al Sud: temi e problemi storiografici e La strage di Faicchio nei documenti d’archivio.
di Dario Melillo