Ecco il testo integrale dell’orazione per il 25 Aprile pronunciata dal presidente del Comitato provinciale di Benevento, Amerigo Ciervo
Carissime e carissimi partecipanti al 25 aprile del 2024.
Quest’anno la memoria della Resistenza e della liberazione dal nazifascismo cade in un clima di grande preoccupazione per i pericoli che minacciano il mondo. Siamo di fronte a un processo che, quasi con un effetto moltiplicatore, scaturisce dall’aver sdoganato, con serenità, con pacatezza, in un periodo ormai lungo, molte parole che, per la coscienza civile di questo paese, hanno rappresentato quasi un tabù. La parola guerra che sta rientrando senza eccessivi problemi nella comunicazione quotidiana, più volte ripetuta dagli imbonitori dei mass media dediti a formare, nell’opinione pubblica, una sorta di pensiero unico in merito al clima di esasperazione bellicistica in cui le guerre in atto stanno di fatto precipitando il mondo occidentale. Tutto è in pericolo perché della guerra si parla spesso in modo irresponsabile, come se fosse una dura necessità o, peggio, una nuova e accettabile normalità.
Dunque urge un 25 aprile di liberazione dalla guerra. Un 25 aprile di un “Cessate il fuoco ovunque“.
E sembra un’idea arcaica, quella dell’Europa nata a Ventotene grazie al fecondo impegno di tre giovani antifascisti, lì confinati dal regime e non certamente inviati in villeggiatura, come ebbe incautamente a dire un personaggio che, dello sdoganamento culturale, ancor prima che politico, ha avuto grande responsabilità e ora anche omaggiato con un francobollo commemorativo. Sembra definitivamente morta l’idea di un Europa di pace, di distensione e di cooperazione tra i mondi. L’idea di un’Europa dei diritti sociali e civili, della democrazia, del progresso, dell’uguaglianza, dell’accoglienza. È l’Europa dei tecnocrati e degli economisti, non degli utopisti e dei politici, del presidente banchiere, come Suzette Bloch, la nipote di uno dei più grandi storici del Novecento, fucilato dai nazisti ottant’anni fa, ha recentemente definito il suo presidente. E così ritorna il riarmo generalizzato, ritornano le terribili analisi che sembrano condurre come naturale, logica conclusione alla necessità di entrare direttamente nel conflitto. E tutte queste idee vanno insinuandosi, tra il consapevole e l’inconsapevole, nell’opinione comune. L’Europa non svolge nessun ruolo indipendente, autonomo, si limita a muoversi lungo i sentieri dell’atlantismo statunitense più dogmatico.
Anche a casa nostra avvertiamo qualche pericolo. C’è un governo, assolutamente legittimo s’intende, che comprende una destra che ha le sue radici nel ventennio fascista e nelle sue nostalgie. Una destra estrema che in vari modi tende a reprimere qualsiasi dissenso, qualsiasi protesta. Una destra estrema aggressiva, vendicativa e rivendicativa, che è in guerra aperta con i principi fondanti della Costituzione e i valori dell’Antifascismo e della Resistenza. Quotidianamente, a piccoli passi, ma con continuità e perseveranza, assistiamo a un’opera di scavo che tende a mutare i nostri riferimenti ideali, a riscrivere la storia, a capovolgerne i parametri di riferimento, a impartirci, con storici improvvisati, giorno dopo giorno, nuove lezioni. Ed ecco, in sequenza, la mortificazione delle conquiste del mondo del lavoro, la distruzione del carattere costituzionale della sanità e della scuola pubblica, la messa in crisi dello stesso diritto di sciopero e, ancora, la piena libertà riservata al grande Moloch del mercato, l’occupazione “manu militare” dei mezzi di informazione, l’attacco ai giornalisti ai quali si fa balenare addirittura l’arresto, la censura di scrittori e di scrittrici importanti, rei di non pensarla, dicono, come chi comanda – ma in democrazia non si comanda, si governa – e l’attacco ai diritti fondamentali conquistati dalle donne, il tutto nella consueta cornice fatta di razzismo, di xenofobia e di diffusione di paure e preoccupazioni immotivate. Tutto ci appare in pericolo perché ci sono milioni di poveri, dilaga il lavoro precario, con i tagli alla sanità e alla scuola pubblica, con l’intera Europa che rischia la recessione economica. C’è una grande solitudine sociale, il futuro viene visto non più come una speranza di miglioramento, ma come una minaccia.
Sul piano delle istituzioni, la miscela esplosiva di autonomia differenziata più premierato produrrà la formazione di venti piccole patrie nelle mani dei cacicchi della politica, lo svuotamento del Parlamento nei suoi poteri legislativi e di controllo e di legittimazione dei governi; il venir meno della separazione dei poteri con un Esecutivo eletto sulla base di uno stravolgimento della rappresentanza, con l’annullamento del ruolo del Parlamento e della funzione di garanzia del Presidente della Repubblica. Il quadro ci sembra questo.
Poi, per fortuna, ci sono i giorni come questi. I giorni della religione civile. I giorni che servono a marcare, a puntellare, a risvegliare, a ritrovare insieme i valori fondativi delle nostre comunità. Del nostro paese, della nostra patria. E oggi noi siamo qui, come in tutte le altre piazze d’Italia, a ricordare il Natale della nostra Repubblica. Ed è la storia che ce lo ricorda. La storia che – dobbiamo dirlo forte – si studia e non si querela. Il 25 aprile è il simbolo dell’Italia libera e liberata, dopo venti mesi di Resistenza e uno straordinario tributo di sangue e di dolore. È la fine dell’occupazione tedesca. È la fine del fascismo. È la fine dello Stato fascista, ma anche del vecchio Stato liberale, e l’avvio della costruzione di un nuovo Stato e di una nuova società.
La storia che abbiamo studiato ci ricorda che non ci sarebbero stati il due giugno, il primo voto delle donne, la scelta repubblicana, se non ci fosse stato il venticinque aprile. La storia che abbiamo studiato ci ricorda che, se non ci fosse stata la Resistenza, non avremmo potuto scriverci da noi la costituzione, che ci sarebbe stata, viceversa, imposta dai vincitori.
Che cosa è dunque il venticinque aprile per questo paese? È la fondazione su basi nuove della democrazia e della cittadinanza democratica, è la ridefinizione della sfera pubblica dei diritti, è la riaffermazione della strettissima connessione tra i diritti politici e sociali, è il riconoscimento costituzionale del lavoro. Il venticinque aprile ha aperto le porte ad una nuova Italia, all’Italia del conflitto e non del pensiero unico, del parlamento eletto proporzionalmente e non dell’uomo forte al comando, di una democrazia che include, che fa crescere, che si prende in cura – I care è lo slogan di Barbiana, pensato da un gigante del nostro Novecento, – tutte e tutti, in special modo dei più deboli, di quelli per i quali la Repubblica deve preoccuparsi di rimuovere quegli ostacoli, economici e sociali che, limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, che impediscono il pieno sviluppo di ogni persona, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Il 25 aprile ha aperto le porte a una Repubblica che avrebbe dovuto vivere secondo i principi della legalità, programmaticamente redistribuire ricchezza, tutelare i beni comuni rispetto agli interessi di individualistici avviare un nuovo e civilissimo Stato sociale. Tutto ciò è contenuto nella Costituzione. Ora altissime personalità istituzionali ci dicono che in Costituzione non c’è mai l’aggettivo antifascista. Rispondiamo: non c’era affatto bisogno perché le idee fondative e la visione politica e culturale della Costituzione sono esattamente la negazione delle idee e della visione del fascismo. E la costituzione sulla quale si giura porta in calce quattro firme: quella di un liberale napoletano che aveva votato per la monarchia, quella di un democristiano trentino, quella di un liberale leccese e quella di un avvocato genovese che fu tra i fondatori del Partito comunista d’Italia. Qui sono dunque le fonti ideali della nostra religione civile. E sembra che i fascisti, veri o nostalgici, con la Costituzione non hanno nulla da spartire.
E visto che stiamo parlando di religione civile, chiediamo alle istituzioni comunali di riparare quanto prima ad un torto grave. La toponomastica ha una grandissima funzione, in tal senso. Deve ricordare alla polis eventi significativi e uomini e donne che hanno offerto un contributo non irrilevante alla storia della nostra comunità politica. Ora la toponomastica di questa città, per certi versi, sembra si sia arrestata al Risorgimento e alla prima guerra mondiale o all’impresa di Italo Balbo, ben noto gerarca, responsabile delle violenze che uccisero don Giovanni Minzoni, il parroco di Argenta. C’è il principe di Napoli, ma non c’è una piazza intitolata alla Repubblica. E non c’è più piazza Giacomo Matteotti. Ecco: in occasione dei cento anni del rapimento e della uccisione del primo e tra i più importanti martiri del fascismo, noi chiediamo ufficialmente al comune di Benevento di provvedere e di provvedere al più presto all’intitolazione di una strada o di una piazza centrale a Matteotti.
Concludo.
Questo 25 aprile non può essere come gli altri. Da tutte le piazze d’Italia, dove in queste ore s’è radunata l’Italia democratica e antifascista, dove sono scese le famiglie, le donne, i giovani, si risvegli una nuova speranza di futuro, un futuro fatto di pace, di libertà, di dignità, di lavoro, di diritti. Costruiamolo insieme questo paese, costruiamolo migliore, sventolando le bandiere della Costituzione antifascista, la bandiera dell’Italia fondata sul lavoro, dell’Italia che ripudia la guerra, sventolando la bandiera di coloro dal cui sacrificio sorsero i semi di un’ Italia nuova.